Teatro
Bisognerebbe scrivere molte pagine per raccontare il Teatro di Franco Di Francescantonio, la sua arte, il suo mix di tecnica precisa e raffinata e di umanità calda e comunicativa.
Difficilmente si poteva rimanere indifferenti assistendo ad uno spettacolo con Franco, in particolar modo assistendo ad uno dei "suoi" spettacoli, ai suoi monologhi, "Lettera al padre", "La voce umana", "Perle rare", "Confessione", "Recitarcanzoni"..., spettacoli nei quali Franco ha sempre espresso una poetica del palcoscenico molto personale, fatta di parole, intonazioni, gesti, movimenti estremamente definiti che scolpivano e cesellavano lo spazio comunicativo fra lui e lo spettatore, facendosi veicolo di denso significato e profonda sensibilità.
Come sempre, l'esperienza individuale e personale non è sostituibile, non ci sono parole che possano restituire l'emozione e l'intensità che si potevano sperimentare ad uno spettacolo di Franco.
Quelle che riportiamo qui sotto sono le parole uscite di getto dalla penna dello scrittore Marco Vichi, amico di lunga data di Franco, dopo aver assistito ad una replica di "Lettera al padre", che costituì, all'epoca, la sua prima esperienza, il suo primo incontro con il Teatro di Franco Di Francescantonio.
“Ho visto raccontare una lettera, o meglio: ho visto come nasce una lettera scritta al proprio padre con cui non si riesce a parlare. Kafka. Letteratura in teatro: una cosa difficile. Avevo pregiudizi. Molti. Tutti spazzati via già nei primi minuti. Una lettera, insomma. L’avevo letta molti anni prima, quella lettera, camminando su e giù per la stanza, perché seduto non potevo stare, perché per certe analogie era come se l'avessi scritta io. E ora la ritrovo qui, sopra un palco. Parole pronunciate con apprensione, parole evocate, parole impossibili da dire a parole. Dopo stasera, per me, Kafka ha un'ombra in meno, e molte in più. Non ho visto la solita solitudine proverbiale di Kafka (costretto anche lui, spesso, a diventare kafkiano) che a volte appare silenziosa, vuota, quasi come una morte. No, non quella. Ho trovato la solitudine viva di un uomo consapevole, capace di parlare con il mondo, anche se non di unirsi a lui. Un uomo pieno di vita e di sogni, di desideri muti. Non ricordo di aver mai provato, in un teatro, tante emozioni in così poco tempo... un'ora che sembra un minuto. Emozioni che sembravano scaturire dalle zone più profonde di me, dove la coscienza non può arrivare. Scariche di brividi, semplici brividi, dalla nuca alle caviglie, quei brividi che sento quando la ragione cede la parola al sangue, quando dentro di me dico: "Sì, è così, è così...” senza che sia possibile aggiungere altro. Ma ho anche riso, riso forte, senza potermi trattenere. Ho riso nello stomaco, mordendomi le labbra. Una cosa che mi succede senza scampo davanti alle verità umane, quando mi sembra di capire qualcosa di nuovo che fino a quel momento percepivo soltanto come un odore: il piacere di conoscere qualcosa in più dell'uomo, i suoi aspetti più tragici, ma anche i più dolci. Purché veri. Ma ho riso anche nella mente, perché sul palco e dentro di me c'era lo stesso Kafka: ho riso di complicità, ho riso per affinità, per un senso profondo d'intesa. Ho riso come quando mi trovo davanti qualcuno che ama le stesse cose che amo. E ho gridato. Insieme all'insetto ribelle e timoroso ho gridato, ho stretto i pugni e ho avuto paura, con la gola chiusa: anzi ero io che aprivo la bocca, io che scagliavo via i manoscritti. In altri momenti, se avessi dato retta all’impulso, mi sarei buttato in ginocchio a contare le lacrime. C’è modo e modo di dire "mamma". È la parola più semplice, la prima che ognuno ha detto. C’è qualcosa di assoluto in quella parola, e a pronunciarla si rischia di diventare patetici, o magari finti, e spesso (unico rimedio) ci si salva con l'ironia. Non Kafka. Non Di Francescantonio. Quella semplice parola, mamma, mi ha investito con tutta la sua potenza. Ma potente era ogni momento dello spettacolo. Sono stato catturato da quella magia di identificazione e scoperta di sé che secondo Aristotele il teatro riesce a creare. Il testo è fondamentale, ma l’attore lo è altrettanto. In questa lettera a suo padre, Kafka riprova a essere uomo, smette di contarsi le zampette e cerca una pace che non trova. Ha troppa forza dentro di sé‚ per essere in pace con il mondo, troppa profondità per diventare “normale”. Inadatto alla vita, soffre e gioisce di queste sue limitazioni, consapevolmente. Nello spettacolo ci sono anche momenti di effetto assai potenti, e mai inutili. Ma la vera passione di Di Francescantonio la vedo nella capacità di affidare ai gesti più semplici, più insignificanti, il compito di far trapelare con evidenza sentimenti nascosti. Non è da tutti quella capacità con cui un popolo intero di emozioni, di visioni, di fantasmi, viene cacciato via con un gesto: una mano che passa nervosamente sullo stomaco, un movimento del collo, o il sistemarsi continuo della camicia che trasmette al di là della ragione il tentativo di rientrare con urgenza nell'armonia, nella calma. Quella convinzione, quel “momento giusto”, hanno una potenza difficile da spiegare. Sopra il palco di un teatro si finge il vero, e lo si deve fare fino in fondo: un attimo di debolezza, di poca convinzione, e tutto precipita nell’inconsistenza. E' fatale. Quando si urla, o si urla davvero, dal profondo, o si diventa immediatamente ridicoli. Quando si piange, o si ride, o ci si dispera, nessuno deve dubitarne, altrimenti è l’indifferenza a salire sul proscenio. Esigente come sono, ho cercato durante lo spettacolo un attimo di cedimento, di caduta... ne avevo paura e al tempo stesso forse lo desideravo: ma non l’ho trovato. Quando mi cibo di libri o di spettacoli sono polemico, magari anche amaro, forse cattivo. Un neo lo faccio diventare una piaga. Non mi piace sprecare parole, se non mi vengono dal sangue. Ma posso dire che "Lettera al Padre" è uno spettacolo straordinario, che non dimenticherò finché vivo".
Marco Vichi
Schede spettacoli (A-G)
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Molte componenti sono da rilevare nell'Agamennone di Eschilo, l'atmosfera di angoscia che permea tutto il dramma, il problema della responsabilità divina e di quella umana, il tema della trasgressione e della giusta vendetta, molte altre ancora.
Ma va sottolineata anche una componente che si colloca al confine tra struttura e contenuti, tra gli eventi e la loro organizzazione scenica. I personaggi, infatti, si dispongono sì secondo una gerarchia d'importanza, ma sembrano esplicitare ciascuno una pienezza di vita e un'originalità di affetti, che li fa vivere anche al di fuori di una struttura chiusa. Dicono e fanno cose che oltrepassano l'economia della vicenda, come se non fossero pedine di una scacchiera, ma esprimessero una forza anche centrifuga.
Franco Di Francescantonio, l'uomo di sentinella sul tetto della reggia, parla di sé stesso, delle sue lunghe, dolorose, angoscianti notti trascorse a vegliare. Esulta quando scorge all'orizzonte le fiamme radiose, il segnale che Troia è caduta, si prepara a iniziare lui stesso le danze di tripudio. Ma parla anche dei mali incombenti sulla reggia, delle minacce oscure che pesano sulla città. il personaggio, e come lui tutti gli altri, si apre dunque a più sentimenti, anche contraddittori, non è una semplice particella, un frammento di un tutto.
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"Alma Margrethe Maria Schindler, vedova di Gustav Mahler, è una figura carica di fascino. Nella sua lunga vita, nata a Vienna nel 1879 e scomparsa a New York nel '64, gli amori, i matrimoni, le bravi infatuazione e naturalmente le passioni non corrisposte, si susseguono a ritmo incalzante, anzi si sovrappongono al punto che per dargli un ordine occorrerà affidarsi al puntiglio autobiografico della stessa Alma, sempre minuziosa nell'esporre quelli che Elias Canetti definirà, con pungente ironia, i suoi "trofei".
Ma l'interesse che suscita ancora oggi questa particolare figura femminile non si esaurisce certo nel computo delle sue numerose conquiste; ciò che stupisce davvero è la loro qualità. I nomi degli uomini che Alma incontrò e con i quali riuscì a intessere le relazioni più svariate, soprattutto quelli che amò, delineano infatti non tanto la geografia sentimentale di una "mantide" del Novecento, quanto la costellazione di una intelligencija artistica che ha segnato un'epoca e anticipato il futuro.
Nel cruciale passaggio dalla tradizione alla modernità, in un'Austria prossima alla fine del suo predominio sul mondo due volte millenario, diventata ebolliente crocevia delle secessioni, della rottura espressionista, della ricerca atonale dei musicisti della "Scuola di Vienna", di una nuova purezza architettonica e dell'esistenzialismo poetico e letterario, gli uomini di Alma si ergono tra gli ermeneuti della distruzione incombente, al contempo custodi di un messaggio profetico. Gustav Klimt, Alexander Von Zemlinsky, Gustav Mahler, Walter Gropius, Oscar Kokoschka, Franz Werfel.
Proprio nell'arco temporale che corre dai trionfi dorati del padre della Secessione, il pittore Gustav Klimt, al riconoscimento accordato alle opere narrative più tormentate del poeta e drammaturgo Franz Werfel, Vienna esaurisce la sua funzione di città guida delle arti del nostro secolo. E Alma è presente: coglie a suo modo il culmine e le contraddizioni dello splendore austriaco, vive il crollo dei suoi valori e l'avvento del nazismo attraverso il flusso continuo degli stimoli e delle emozioni di chi le sta accanto".
Marinella Guatterini
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Il "mostro" in questione - la definizione rimanda ad una "bizzarria anatomica" del protagonista - è Juan D., trentenne disoccupato in cerca di un lavoro che lo sottragga ad una madre vedova possessiva e castrante. Suo unico antagonista in scena è l'efficiente Krugger, puntiglioso direttore del personale al quale Juan D. ha inviato il proprio misero curriculum. Convocato dal funzionario per un banale colloquio di assunzione, incalzato da precise domande, Juan D. racconta la sua vita "impossibile" di figlio troppo amato.
Nel corso del colloquio, in un'inquietante atmosfera vagamente Kafkiana, la presenza delle madri dei protagonisti si fa sempre più ingombrante, in un gioco di "variazioni sul tema" orchestrato su due diversi registri: quello nostalgico di Krugger e quello risentito di Juan. Nelle due banalità (una domanda d'impiego e i contrasti tra figlio e madre possessiva), i personaggi di Tomeo tessono strani fili: il candidato - vigile, attentissimo - si serve forse di sua madre per intenerire il capo del personale; quest'ultimo si serve forse del colloquio professionale per rievocare il ricordo della madre morta. E forse tutti e due si inventano queste madri per giustificare la "vita impossibile" che conducono: quella di Juan, soffocata dall'inattività e solitudine, ma anche quella di Krugger, perduto come un bambino nell'universo degli uffici, della puntualità, della produttività.
L'edizione italiana dello spettacolo (con qualche taglio e con il recupero di qualche frase dal romanzo) ha sostanzialmente conservato la struttura originale della pièce francese che si svolge inesorabilmente nel tempo reale di un colloquio durante il quale non sembra succedere assolutamente nulla, lasciando al lavoro d'introspezione degli attori e ad alcune fulminee incursioni surreali il compito di riempire di umori e colori "sorprendenti" la non-vicenda dei due protagonisti.
In questa edizione si è pero' cercato di spezzare l'eccessiva orizzontalità della trascrizione scenica con alcuni piccoli "cambiamenti di prospettiva" che, al pari del leggero strabismo dei nostri occhi, possono, forse, aiutare a dare più profondità al campo di visione di questo piccolo universo cosi' mostruosamente normale.
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Tra le pagine più emblematiche del Nuovo Testamento, l’Apocalisse traccia visioni e emozioni che appartengono a tutti noi. Un mondo di segni, allegorie, parallelismi, che invita ad una riflessione costante su ciò che è e sarà il nostro compito e il nostro cammino di esseri umani. Un Testo Sacro trattato con un movimento “sinfonico”, con un intrecciarsi di suoni e immagini che la voce di Franco di Francescantonio animerà con ulteriore emozione.
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da Federico Garcia Lorca
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"...Abbiamo in mano una coppa d'oro
piena di raro liquore che lento si spande;
ogni goccia è un anno che si sottrae al tesoro
e in un giorno perdiamo questa coppa d'oro
poiché l'amore che è fuoco può cambiarlo in fiamma
o il cuore afflitto lo versa del tutto..."
Garcia Lorca
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Qui comincia l'avventura... è il progetto per una serie di cartoni animati per la televisione dedicata al celebre personaggio ideato da Sergio Tofano, in arte STO, nel 1917. Nato e vissuto alungo sulle pagine del Corriere dei Piccoli e dopo aver attraversato teatro e cinema, il Signor Bonaventura oggi torna alla ribalta con la sua compagnia al gran completo, in cui brillano tra gli altri: Barbariccia, il nemico bilioso; il bellissimo Cecè, il gagà eterno accompagnatore di contesse e marchese; il fedelissimo bassotto giallo...
L'idea nasce dopo un lungo periodo di studio sul materiale storico relativo al personaggio, vero e proprio "bene culturale" italiano nel suo campo,. È stato recentemente completata la realizzazione dell'episodio pilota "Bonaventura e il baule", co-prodotto da RAI Fiction e Polivideo S.A., presentato in anteprima all'edizione 2002 del Festival Cartoons on the Bay a Positano. "Bonaventura e il baule", episodio pilota della serie "Qui comincia l'avventura...", è un cartoon di tre minuti circa in cui le quartine in versi – curate da Gilberto Tofano – e le musiche – curate da Aldo Tarabella – fanno da struttura portante per il dipanarsi della vicenda e per tutti i gesti dei personaggi: una sorta di micro-operetta, con tanto di inchino finale della compagnia.
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da Kabale und Liebe di F. Schiller
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per attore, cantante, danzatore, musicista
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Diverse forme espressive per una serata di Teatro. Ognuno di noi aveva qualcosa da "raccontare": abbiamo deciso di farlo Insieme, ognuno con la sua propria Arte, convinti che il nostro modo di lavorare, i nostri interessi, i nostri stimoli e i nostri desideri possano essere un motivo sufficiente per farci "incontrare" su un palcoscenico.
Questo, se proprio ci deve essere, è l'unico filo conduttore del nostro "momento teatrale" e, credeteci, non è poco.
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Il Progetto-Opera "Concerto a Marval" è un tempo unico per più espressioni artistiche all'interno di una Scultura d'Arte, realizzato dal gruppo SUTEDA con la partecipazione dell'attore Franco Di Francescantonio.
Opera, o meglio una ricerca artistica, presentata in prima assoluta al Teatro Zandonai di Rovereto, nell'ambito della manifestazione "TrentoCinema '88". L'Opera si prefigge lo scopo di riprodurre all'interno di una Scultura d'Arte una "sintesi additiva" di più espressioni. Queste ultime agiscono in rapporto ad una situazione estranea, con parametri completamente sciolti e interdipendenti tra loro, manipolando nei momenti ricercati e voluti alcune situazioni comuni di spettacolo. Si esclude una sceneggiatura lasciando a ciascuna delle arti (teatro, danza e musica) la libertà e l'onere di evolvere il proprio pathos artistico senza contaminazioni, autonomamente, solo ed esclusivamente in rapporto alla "Scultura" che nell'Opera rappresenta l'unica matrice comune di confronto. la "Scultura", che per tutto il tempo è scenografia e "confine", dovrà anch'essa spogliarsi del suo limite artistico, per rinnovarsi in una "nuova creazione". Una serie di corde tese in movimento la attraversano per riprodurre in più spazialità l'effetto visivo dell'onda sonora; si ottiene così la visualizzazione del suono riprodotta in una Scultura d'Arte, trasformandola così in un nuovo e affascinante strumento musicale.
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da Le Confessioni di L’ev Nikolaevic Tolstoj
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Il russo "ispoved’", privo del plurale, che vale ugualmente sia per «confessione» sia per «confessioni», può essere tradotto anche con «confessione di fede» o «professione di fede». E sebbene il testo di Tolstoj non possa essere annoverato tra le opere religiose in senso stretto, con Rousseau e Sant'Agostino questi condivide il medesimo slancio morale e filosofico.
Le confessioni di Tolstoj sono al tempo stesso il diario e il risultato della sua lunga crisi intellettuale ed esistenziale che ebbe inizio nel 1847, quando, ancora diciannovenne, annotava sul suo diario: "Qual è il fine della vita dell'uomo?".
Forse la domanda non avrebbe attirato la mia attenzione se fosse stata posta da un altro uomo che non avesse avuto la statura e la personalità di Tolstoj e certo non si sarebbe mai tradotta in un'idea di spettacolo. Ma la lucidità razionale con cui Tolstoj attacca la coscienza occidentale, facendone vacillare le basi culturali, la passione con cui vuole rinunciare a comprendere la vita attraverso la ragione per abbracciare un sano pragmatismo etico quotidiano, la "violenza", la drammaticità e l'ironia (talvolta comicità) del linguaggio con cui espone la sua invettiva contro la falsa coscienza della vita, mi hanno convinto che da Le confessioni si poteva non solo trarre uno spettacolo, ma anche riproporre in forma palesemente dichiarata la relazione profonda che unisce teatro e filosofia.
Su questa base intellettuale ed artistica ho incontrato la sensibilità e la disponibilità di Franco di Francescantonio, che a buon diritto deve essere considerato come uno degli artisti più dotati e intelligenti della scena italiana. Insieme abbiamo scelto di affidare all'opera e al linguaggio di Tolstoj la nostra esigenza di dire qualcosa sul nostro tempo, sulla sua cultura, i suoi valori, la sua visione del mondo. C'è, infatti, in Tolstoj qualcosa di ancora insuperato, di moderno, soprattutto dal punto di vista etico, qualcosa che conserva intatto il suo valore e che non cessa di riguardare ciascuno di noi. E' nato cosi Confessione, ovvero la nostra, mia e di Franco, personale interpretazione del testo tolstojano.
Dell'originale restano gli interrogativi urgenti, l'asprezza tagliente della lingua e della razionalità tolstojane, lo spessore drammatico. Cambiano però due variabili importanti personaggio e il contesto storico?culturale. Nella nostra versione colui che dibatte con la cultura umana non è più l'aristocratico scrittore russo dell''800, ma un'artista, o se preferite un intellettuale, dei nostro tempo. Dunque Tolstoj anche come esempio, perché forse, con la stessa onestà e lo stesso coraggio del grande scrittore, anche l'artista di oggi dovrebbe riconsiderare il proprio ruolo e la visione della vita di cui si fa portatore.
Riccardo Sottili
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Correspon-dances. Gioco di parole. Titolo di poesia. immagini di corrispondenze, relazioni, analogie, il segno di un cammino. Poesia e danza. Segno e gesto. Parola e movimento. Le parole, i segni, i gesti di Charles Baudelaire e dei suoi Fiori del male.
Innanzitutto, perché Baudelaire? Cosa vi ha spinto a questa scelta?
Polyakov: "Considero Baudelaire il primo vero poeta moderno, in senso assoluto, le metafore che usa, i principi di vita che illustra e le immagini di cui si serve, sono aderenti all'oggi e sottolineano le contraddizioni dell'uomo moderno".
Zimmermann: "Inizialmente non conoscevo a fondo Baudelaire, quindi l'ho avvicinato con cautela, e penetrare nella sua poetica per me non è stato facile. Mi sembrava troppo decadente. In seguito ho iniziato a capirlo e a sentirlo come un uomo di oggi e vi ho trovato similitudini e sintonie con la realtà attuale: il contrasto tra vita e morte, tra la bellezza dello spirito e la sua lenta decomposizione sono affascinanti, travolgono per la loro profondità".
Qual è il rapporto che si è voluto creare tra danza e poesia?
Franco Di Francescantonio: "Musicale. Lo definirei senz'altro un rapporto musicale. Poesia e parola recitata sono un modo "teatrale" di creare la musica sulla quale si danza. Per quanto riguarda me in particolare, l'esperienza positiva sta nel fatto che io, come attore, intervengo nello spettacolo con la duplice funzione di "dire" e di "muovermi" nello stesso tempo. Così il rapporto con lo spettacolo è pressoché totale".
Polyakov: "Sono un coreografo e quindi il mio universo è popolato di immagini, per così dire "danzate". Il testo poetico è il pretesto, l'origine delle riflessioni che nelle coreografie io trasformo attraverso il mio linguaggio specifico. Il gesto, in fondo, non è che il mezzo per visualizzare e allargare il campo d'orizzonte delle parole".
Zimmermann: "Mi ha stimolato il rapporto con un grande poeta. Non credo nella danza come affermazione di concetti astratti; penso invece che l'arte trasmetta dei significati precisi, il linguaggio è unico e il corpo è permanente dialogo con lo spirito e le parole".
Come avete scelto le musiche?
Zimmermann: "Tutti i musicisti sono francesi. Abbiamo scelto l'atmosfera che la loro musica riusciva a creare in relazione ai testi".
Polyakov: "Se avessimo dovuto fare dei riferimenti storici saremmo ricorsi anche a Richard Wagner che era intimo amico di Baudelaire, oppure avremmo utilizzato musicisti che avevano scritto musica ispirandosi alle poesie di Baudelaire. Si è fatto riferimento solo alla nazionalità francese, e quindi a Satie, Franck, Ravel, Debussy".
E per quanto riguarda l'allestimento scenico?
Zimmermann: "In scena ci sono degli elementi staccati che ho ripreso dai testi in cui Baudelaire parla sovente di mobili preziosi e del suo particolare interesse per l'antiquariato. abbiamo usato stoffe con colori tenui, quasi mélange, molto indefiniti. Baudelaire usa molto il colore come simbolo: l'argento rappresenta la femminilità, lunare, oscura, misteriosa. L'uomo in Baudelaire è solare, color oro. Non ci sono mai colori nitidi, come il rosso... Tutto è sempre avvolto in un'ombra".
Com'è strutturata la coreografia?
Polyakov: "I brani scelti sono nove. Quattro coreografati da me, e quattro da Susanna. L'ultimo lo abbiamo concepito e realizzato insieme".
Zimmermann: "Costruire una coreografia in due per me è stata un'esperienza nuova. Si è creata una comunicazione tra differenti stili e diverse sensibilità: quella maschile e quella femminile, tra la danza classica e contemporanea, tra lo stile russo e la scuola argentina".
Cosa ha significato per voi lavorare in gruppo?
Polyakov: "È molto bello. C'è la possibilità di uno scambio reale di emotività, idee e sensibilità differenti. Il gruppo è composto da pochi elementi e questo dà la possibilità di un rapporto continuo e molto stretto. Comunicare con i danzatori significa conoscere, oltre che le caratteristiche fisiche, anche le possibilità espressive, il carattere. Il gruppo di pochi elementi facilita nella costruzione di una coreografia, che avviene in un modo più personale".
"La natura è un tempio ove pilastri
viventi lasciano sfuggire a tratti confuse
parole; l'uomo vi attraversa foreste di simboli,
che l'osservano con sguardi familiari".
Charles Baudelaire
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"Sono molti anni che il breve romanzo "Giovanni Episcopo" di D'Annunzio accompagna le mie fantasie d'attore.
In quest'opera ci sono tutte le contraddizioni e i dubbi letterari e di linguaggio di un secolo che sta finendo e di un giovane poeta pronto a tutto pur di affermare sé stesso. Il linguaggio vacilla tra il poetico e l'estetico, tra il realismo e gli sforzi di "rinnovazione". La struttura del romanzo è per D'Annunzio l'occasione di conciliare il "nuovo modo di descrivere le cose" con l'analisi psicologica dei personaggi. In questo racconto-monologo Giovanni ripercorre la sua vile, misera vita. Il lavoro, l'amicizia, l'amore, la paternità, la morte del figlio, l'omicidio non riusciranno a fare di lui un "uomo". In questa definitiva, liberatoria confessione c'è il tentativo disperato di dire quello che pensa, quello che sente dentro di sé, ma l'unica voce che riesce a "urlare" la verità è quella della sua anima ferita, umiliata, fragile e pronta a cadere tra le braccia della Follia che... arriva, seduce, conquista e possiede.
È quindi uno strano dialogo tra lui e la sua memoria, tra lui e la sua pazzia; un incontro tra voci diverse e il loro conflitto.
Ed ecco la presenza preziosa di Tomasella Calvisi che da anni conduce una affascinante ricerca sui misteri della Voce e sull'uso arcaico ed emozionale della Parola intesa come espressione della memoria.
Abbiamo deciso di "leggere" lo "spettacolo".
La lettura è un momento privato, intenso ed appassionante, e per un attore è la scoperta e la meraviglia di una storia o di un personaggio che potrà rappresentare. Nascono i primi toni, i primi volumi, i primi suoni; nascono i primi sguardi, i primi gesti.
La lettura è come una porta che, aprendosi, mette in comunicazione la testa e il cuore, la fantasia e l'emozione, il sapere con il voler sapere; accende l'interruttore della memoria (quella che c'è e quella che si formerà) e le esperienze che nasceranno saranno bagaglio determinante in quell'attimo di creazione che è il dar Voce alla parola scritta. Abbiamo voluto "giocare al teatro" con la Lettura. Giocare con questo momento magico in cui il Suono Umano mette alla parola un vestito nuovo e diverso."
Franco Di Francescantonio
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